Quando un genitore si sente minacciato dalla presenza del figlio piccolo può, in modo inconsapevole, inviare messaggi al bambino con contenuti omicidi.
Ad esempio, una madre che, dopo due gravidanze troppo ravvicinate, vuole attenzione per i propri bisogni, probabilmente si sentirà arrabbiata e frustrata per non poterli soddisfare e dover invece accudire un altro figlio. Sentendosi arrabbiata, potrebbe sopprimere questa rabbia, mossa da sensi di colpa, e in modo indiretto trasmettere al neonato il suo rifiuto.
Allo stesso modo un padre, accorgendosi di quante attenzioni la moglie dedica al figlio appena nato, rivive la propria esperienza infantile di gelosia per il fratellino e si sente spaventato come allora di perdere l’amore della madre. Come tornare ad essere oggetto di attenzioni? Facendo fuori il neonato, magari uccidendolo. Oggi può accadere che questo bambino, diventato padre, invii dei messaggi al proprio figlio del tipo: “Vorrei che non fossi mai nato!”.
Nessun genitore invia il messaggio non verbale di “non esistere” al figlio perché è un cattivo genitore, ma perché il proprio diritto di esistere è stato probabilmente negato nella propria infanzia e i propri bisogni non sono stati soddisfatti.
L’ingiunzione “non esistere” è piuttosto ricorrente nell’analisi del copione di vita delle persone. Tuttavia, non è vero che chiunque abbia ricevuto tale ingiunzione arriverà al suicidio, quanto è vero che chi commette suicidio ha sicuramente ricevuto questa ingiunzione. Fortunatamente, siamo abbastanza creativi per trovare dei modi di sopravvivere, nonostante ci abbiano detto di “non esistere”!
Ricordo un uomo che nell’infanzia aveva deciso inconsciamente che per lui potesse essere lecito continuare a vivere solo se avesse impiegato la maggior parte del suo tempo lontano dagli altri, isolandosi per disturbare il meno possibile e trovando mille giustificazioni a questo isolamento (lavoro, sport, malattie…). Tuttavia, l’idea del suicidio non lo sfiorò mai nel corso della sua esistenza. Quando si rese conto dell’ingiunzione che portava con sé si fece degli amici. Ora poteva esistere senza bisogno di starsene per forza da solo!
Un bambino che ha ricevuto l’ingiunzione a non esistere può decidere, nell’infanzia, che per essere amato dai genitori deve necessariamente morire, e farà di tutto nella sua vita per raggiungere tale obiettivo. Le decisioni che un bambino può prendere in risposta all’ingiunzione, portandole avanti per tutta la vita, sono le seguenti:
“Se le cose dovessero andare troppo male mi ucciderò”
“Se tu non cambi, mi uccido!”
“Mi ucciderò, e allora tu soffrirai”
“Arriverò quasi a morire, e allora tu soffrirai”
“Ti porterò a uccidermi”
“Ti farò vedere io, anche se questo mi porterà a morire”
“Ti avrò, anche se ciò mi ucciderà” (Goulding, 1983).
Il suicidio potrebbe non essere l’unico modo per togliersi la vita. Altri modi sono: trascurare la propria salute fisica o psicologica; farsi venire un infarto per il troppo lavoro; praticare sport estremi molto rischiosi per la propria incolumità fisica; scegliere un partner violento che può in qualche modo danneggiarci; commettere atti di grave autolesionismo. I copioni di vita con questo tipo di tornaconto finale, sono detti copioni perdenti e, nel caso terminino con la morte della persona, sono chiamati “amartici” (dal greco “amartia” che vuol dire appunto “catastrofe”).
Oltre all’ingiunzione “non esistere” e al copione amartico, chi arriva al suicidio ha sempre una convinzione su di sé e sugli altri fatta di svalutazione. Nei termini dell’analisi transazionale questo concetto è tradotto così: io non sono ok, tu non sei ok. Quindi nessuno ha speranza. La posizione di vita sintetizzata in questo modo va a giustificare la propria decisione di morire togliendosi la vita, per fare del male a se stesso e all’altro.
Il Bambino Adattato del suicida esprime un senso arcaico di inutilità e di mancanza di valore, si sente cattivo e ingombrante (aspetto depressivo), oppure sente la vita come una sfida in cui la sopravvivenza psicologica è connessa con il vincere o perdere (aspetto maniacale) e che è una difesa dalla depressione.
Il Genitore introiettato è duplice: un Genitore Grandioso: “Tu puoi fare qualunque cosa” e un Genitore Punitivo: “Ma non lo farai mai abbastanza bene da farmi piacere”.
L’Adulto è contaminato dall’idea che “i problemi non possono essere risolti” ed è quindi un Adulto che non è in grado di vedere quali risorse ci sono nel momento presente.
La terapia analitico transazionale dovrà dare importanza ad un lavoro che si basi sull’integrazione delle polarità del Bambino (svalutazione e grandiosità) facendo emergere i bisogni e le emozioni libere (“Voglio esistere!”), e necessariamente si dovrà fondare su caratteristiche di non competizione, fornendo un Genitore Affettivo e Realistico. L’Adulto andrà energizzato affinché diventi capace di vedere le risorse per risolvere i problemi.
Prendendo come spunto i contributi dei maggiori autori di Analisi Transazionale ho fornito una chiave per leggere il suicidio nell’ottica di questa teoria. Ho voluto sottolineare come anche il suicidio, che è un atto estremo per denunciare il proprio malessere, si muova all’interno dello scambio energetico tra gli Stati dell’Io e si possa interpretare come una svalutazione totale della propria persona e dell’altro. In questo modo voglio inserire questa grande sofferenza umana all’interno di un quadro interpretativo che faccia riferimento ad una dimensione sana della persona, prima ancora che patologica, ovvero quella del bisogno di riconoscimento, del bisogno di carezze, di attenzione per i propri bisogni, che attraversa le generazioni, parte dai genitori e arriva ai figli.
Credo che la mia analisi apra la strada a degli aspetti di prevenzione, prima che di cura, materia della psicologia della salute, prima che di quella clinica.
Marina Belleggia
Per approfondire:
Goulding, R. e M. (1983). Il cambiamento di vita nella terapia ridecisionale. Roma: Astrolabio.
Novellino, M. (1998). L’approccio clinico dell’Analisi Transazionale. Milano: Franco Angeli.
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